Affrontare la questione dei collaboratori di giustizia

In questi giorni diversi articoli di stampa, ultimo in ordine di tempo quello firmato da Lirio Abbate su La Repubblica, hanno sottolineato alcune gravissime criticità nella gestione dei collaboratori di giustizia.
I collaboratori di giustizia sono uno strumento fondamentale nella lotta alle mafie ed il loro inquadramento normativo si deve proprio all'intelligenza di Giovanni Falcone che ne intuì l'importanza.

Lo Stato ha senz'altro il dovere di creare le migliori condizioni possibili perchè chi affida la propria vita alle Istituzioni avendo scelto la strada della denuncia di crimini mafiosi e non, possa trovare nello Stato uno scudo credibile ed efficace a tutto tondo.
E quanto denunciato in questi giorni da organi di stampa e associazioni, che ha fatto emergere un grave corto circuito tra diversi settori dello Stato (Ministero dell'Interno e Agenzia delle Entrate) colpisce proprio - con i collaboratori e le loro famiglie - l'istituto stesso della collaborazione di giustizia.
Troppo spesso, inoltre, le vite dei collaboratori di giustizia così come quelle dei testimoni di giustizia sono appesantite da meccanismi burocratici che vanno verificati alla luce dell'alto valore democratico di questi percorsi di denuncia.
Come Pd abbiamo sempre mantenuto alta l'attenzione nei confronti di queste persone e presenteremo in Antimafia interrogazioni urgenti al Ministro dell'Interno perché il Parlamento sia informato su ogni aspetto e di ciò che il Governo intenda fare per risolvere la grave situazione.

Testo dell'interrogazione:

Atto n. 3-01326 | Pubblicato l'11 settembre 2024, nella seduta n. 218

VERINI, RANDO, MIRABELLI, VALENTE, PARRINI, GIACOBBE, ROSSOMANDO, IRTO, CAMUSSO, LOSACCO, TAJANI, NICITA, FURLAN, ROJC, MANCA, ZAMPA, ALFIERI, SENSI, MALPEZZI, VERDUCCI, FINA, FRANCESCHELLI, ZAMBITO, LA MARCA, BASSO, MARTELLA, DELRIO, LORENZIN, CRISANTI

Ai Ministri dell'interno, della giustizia e dell'economia e delle finanze. 
Premesso che:

con il decreto-legge15 gennaio 1991, n. 8, venne normata per la prima volta nel nostro Paese la figura del "collaboratore di giustizia", norma fortemente sostenuta dai magistrati impegnati nella lotta alla mafia, a cominciare da Giovanni Falcone e Antonino Scopelliti;

la legge 13 febbraio 2001, n. 45, oltre ad introdurre la figura del testimone di giustizia, ha riformato, fermo restando le riduzioni di pena e l'assegno di mantenimento concesso dallo Stato, la disciplina risalente al 1991 introducendo sostanziali novità, tra le quali il tempo massimo di 6 mesi per il pentito per dire tutto quello che sa a partire dal momento in cui dichiara la sua disponibilità a collaborare;

il collaboratore non accede immediatamente ai benefici di legge, ma solo dopo che le dichiarazioni vengano valutate come importanti e inedite; il pentito detenuto dovrà scontare almeno un quarto della pena;

la protezione dura fino al cessato pericolo a prescindere dalla fase in cui si trovi il processo;

tali modifiche sono state criticate da molti esponenti della magistratura, poiché ritenute un freno alla possibilità di contare su informazioni utili per ricostruire dinamiche e strutture del crimine mafioso;

le misure di protezione per il collaboratore di giustizia sono temporanee e non possono essere superiori ai 5 anni a differenza di altri Stati, primi fra tutti gli Stati Uniti, dove la protezione è a vita e se ne può uscire solo in via eccezionale;

con le modifiche introdotte nell'ordinamento nazionale, qualora si ritenga che la collaborazione sia esaurita, non vengono concesse proroghe e vengono tolte al collaboratore tutte le misure di assistenza concedendo al contempo un capitale che non va oltre i 50.000 euro per favorire la stabilizzazione. Tale cifra viene stabilita al Ministero dell'interno dalla commissione centrale per le speciali misure di protezione;

a fronte dell'erogazione della cifra di "stabilizzazione" nella quasi totalità dei casi interviene l'Agenzia delle entrate pronta a confiscare la somma erogata al collaboratore, perché quest'ultimo è debitore verso lo Stato delle spese processuali o delle pene pecuniarie inflitte nei vari processi allo stesso collaboratore;

la confisca di queste somme vanifica la possibilità di stabilizzazione del collaboratore di giustizia, che tornando nei luoghi di origine, non avendo più risorse a disposizione, può essere oggetto di rappresaglie od anche di rientrare nella rete della criminalità;

infine, occorre evidenziare come anche la casa concessa dallo Stato al collaboratore di giustizia in un luogo protetto, dove viveva con la sua famiglia, deve essere lasciata,

si chiede di sapere se i Ministri in indirizzo ritengano la lotta alla mafia una priorità non solo da evocare, ma da attuare attraverso misure che rafforzino le forme di collaborazione con la giustizia e se non ritengano opportuno intervenire con specifiche misure al fine di evitare che entrino in conflitto le diverse amministrazioni dello Stato sulle problematiche evidenziate, garantendo, altresì, al pentito, conclusa la fase della collaborazione, la sicurezza di avere effettive possibilità di stabilizzazione.

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