Le condizioni della detenzione e la riforma dell’ordinamento penitenziario
Intervento svolto al convegno organizzato da A.G.eD. Associazione Giustizia e Democrazia a Como (video).
Ringrazio per l’opportunità di avermi inserito in questo incontro, con un panel autorevole.
Di carcere si parla poco nel merito, se ne parla molto in modo strumentale.
In queste ultime settimane, si è criticato molto l’utilizzo della carcerazione preventiva ma nel tempo spesso la si è trasformata in una sorta di simbolo di bandiera per giustificare battaglie di altro tipo e la si è usata per parlare alla pancia delle persone, come si può capire ricordando gli anni del “buttiamo via le chiavi” per rispondere a qualunque reato che colpiva l’opinione pubblica.
Con la Ministra Cartabia abbiamo fatto passi avanti importanti sul carcere, guardandolo come le istituzioni dovrebbero fare. Il carcere, cioè, è all’interno di un sistema penale, previsto dalla Costituzione per la punizione di alcuni reati unitamente all’obiettivo della rieducazione e del reinserimento in società.
Troppo spesso, invece, il carcere è stato visto come luogo afflittivo, in cui bisogna scontare la pena, espiare, soffrire.
In questi anni ne abbiamo parlato tanto e, purtroppo, ci si è riusciti a far diventare il carcere un luogo di grande sofferenza per tutti gli attori, non soltanto per i detenuti ma anche per chi ci lavora e per gli agenti. Sono molte le vicende che raccontano quanto il carcere sia luogo di sofferenza e di violenza e sia lontano dalla mission che dovrebbe avere. Le vicende di Santa Maria Capua Vetere e Torino, per citare gli episodi più recenti, sono a testimonianza di questo.
Ci sono carceri che, dal punto di vista strutturale, sono assolutamente inadatti a garantire una vita civile degna a chi li abita. Come ha detto il Garante per i detenuti nella sua relazione annuale, si tratta di carceri che, nonostante i provvedimenti che sono stati assunti, mostrano ancora un eccesso di sovrappopolazione. Ad oggi, nelle carceri italiane, ci sono 57mila reclusi a fronte di una capienza stimata per meno di 45mila posti. Alcune migliaia di questi detenuti dovrebbero scontare pene pari a un anno per reati bagatellari e che sono punibili anche con pene alternative.
Tra i grandi problemi delle carceri italiane c’è il fatto che non c’è un concorso per direttori da oltre 10 anni: se ne sta facendo uno adesso ma al momento ci sono direttori che si trovano a dover dirigere più strutture.
Stanno andando a compimento i concorsi per gli assistenti sociali e l’assunzione degli agenti perché la carenza di organico era molto significativa.
Ai problemi delle carceri italiane, già molto compromesse, negli anni recenti si è aggiunto il covid, che ha peggiorato di molto la situazione.
Credo che la situazione sanitaria sia stata affrontata in maniera molto efficace dal Dipartimento.
In ogni caso, il covid ha significato l’impossibilità di incontro con l’esterno, l’impossibilità del rapporto con i familiari, l’impossibilità per un lungo periodo di avere formazione, di avere attività associative e di lavorare. Il carcere, quindi, si è veramente chiuso e il tempo dentro al carcere è diventato drammaticamente noioso e inutile ed è cresciuta la tensione, la frustrazione e l’insoddisfazione.
Il covid, però, ha anche insegnato delle cose.
Abbiamo affrontato l’emergenza covid nelle carceri prendendo una serie di provvedimenti, il primo dei quali è stato volto a facilitare la comunicazione con l’utilizzo della rete (videochiamate, videoconferenze) e abbiamo capito che sarebbe folle rinunciare a questo strumento finito il covid, perché è un’occasione per i detenuti comuni per consentire di avere una relazione con le famiglie, ed è anche uno strumento importante per la formazione e per il lavoro. Per questo motivo si è scelto di finanziare con le risorse del PNRR la digitalizzazione delle carceri, in modo da consentire di utilizzare al meglio questi strumenti.
Questo, dunque, è un lascito positivo della pandemia.
Inoltre, è stato approvato un provvedimento, per cui alcuni di noi si sono battuti molto, che sarà in vigore fino al 31 dicembre con cui si dà la possibilità ai magistrati di sorveglianza di mandare agli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico chi ha ancora da scontare fino a 18 mesi. Inoltre, si è stabilito che chi svolge un lavoro all’esterno del carcere, può restare fuori a dormire perché, con la pandemia, non è opportuno che queste persone rientrino. Oggi, molti detenuti sono fuori e ci resteranno fino al 31 dicembre con queste norme.
Questa, a mio avviso, è un’esperienza importante anche perché tra le persone che hanno avuto questi benefici non ci sono stati casi di fughe o recidive.
Di fronte alla paura che aveva suscitato la vicenda delle cosiddette scarcerazioni facili dei mafiosi, oltretutto agitata ad arte, si è dimostrato che, invece, se si fanno le cose per bene, si possono anche scontare le pene in altro modo.
Questo è il messaggio più forte che arriva dalla riforma del processo penale che abbiamo approvato: il carcere è l’estrema ratio e si mettono in campo una serie di strumenti per i reati bagatellari come la messa alla prova, la giustizia riparativa, gli arresti domiciliari e il trattamento esterno per fare in modo che la permanenza in carcere sia l’ultima cosa, anche perché è quello che più difficilmente costruisce il percorso rieducativo utile al reinserimento, anzi, spesso le recidive sono più alte per chi sconta la pena in carcere e proprio tra le persone che stanno in carcere per poco.
C’è, quindi, una svolta culturale seria che poi va realizzata.
Per realizzarla servono diverse cose, tra cui l’assunzione e l’entrata in servizio subito per gli assistenti sociali che si occupano del trattamento esterno, senza aspettare un anno e mezzo di formazione. Il trattamento esterno, la messa in prova e gli arresti domiciliari, infatti, non possono essere disgiunti da un lavoro di supporto.
La Ministra Cartabia, ad un evento organizzato al Senato con il Gruppo della Trasgressione, ha detto che il lavoro e la formazione non possono essere solo occasioni per occupare il tempo ma devono essere occasioni guidate per restituire il senso di appartenenza alla collettività e alla legalità, che deve essere la funzione della pena.
L’altro pezzo importante è legato al PNRR. Molte risorse vengono stanziate per la digitalizzazione degli uffici giudiziari e delle carceri. Inoltre, è prevista anche la sperimentazione dell’aggiunta di blocchi in 8 carceri italiane volti a diminuire la concentrazione dei detenuti dal punto di vista residenziale ma, soprattutto, ad aumentare gli spazi dedicati al lavoro e alla formazione. Il 75% di queste nuove strutture, infatti, saranno dedicate al lavoro e alla formazione.
Questo, infatti, è l’altro tema fondamentale. Lavoro e formazione non bastano da soli ma sono decisivi.
Dopo la pandemia, nelle carceri è rimasto pochissimo per il lavoro. C’è anche un problema di incentivazione delle imprese a entrare in carcere per dare lavoro ai detenuti.
Questo, dunque, è un altro pezzo importante. Non ragioniamo più sull’idea di costruire più carceri per superare il problema della sovrappopolazione (come suggerivano quelli del “buttare via le chiavi”), anche perché nel corso degli anni erano state fatte leggi per costruire più carceri che, però, poi non si erano costruite. Oggi, l’ottica è diversa: costruiamo carceri più vivibili e riduciamo l’utilizzo del carcere come pena; facciamo del carcere l’estrema ratio e usiamo altri strumenti per far scontare le pene.
Un’altra cosa che cambia in maniera significativa le prospettive è la sentenza della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo. È una sentenza che ritengo giusta ed era preceduta da un’altra sentenza in cui si diceva che non si poteva condizionare il permesso o altri benefici per chi è condannato in regime di alta sicurezza e all’ergastolo ostativo (quindi per reati di mafia e terrorismo) alla collaborazione con la Giustizia.
La sentenza mette in luce il fatto che non si può decidere che una persona non possa cambiare con gli anni e toglierle qualunque speranza, per cui non può essere la collaborazione con la Giustizia l’unico requisito necessario per avere benefici.
I reati di mafia certamente non possono essere trattati come gli altri ma anche chi ha commesso quei reati può fare un percorso di affrancamento, anche se sceglie di non collaborare, magari per altre ragioni.
In Senato, stiamo finendo di fare la legge che recepisce la sentenza della Corte Costituzionale ed è la legge che si può fare in questo Parlamento e dice che, se si dimostra che la persona non ha più collegamenti con le associazioni criminali a cui era legato, il magistrato di sorveglianza ne deve prendere atto e può concedere benefici, tra cui anche la scarcerazione (ovviamente dopo molti anni) ma mantenendo la vigilanza.
Anche questo è un passo avanti e si esce dalla logica che il carcere sia un luogo di afflizione e vendetta sociale di fronte ai reati efferati ma indica che il carcere possa essere luogo di speranza e ricostruzione per chi deve scontare una pena.
Queste sono le cose che si stanno muovendo nella direzione giusta.
C’è anche la Commissione Ruotolo che la Ministra ha messo al lavoro per far funzionare meglio il carcere e ha elaborato alcune linee guida che non richiedono modifiche legislative ma si muovono all’interno dell’ordinamento penitenziario attuale, proponendo una serie di misure che possono veramente migliorare la vita nel carcere.
La politica deve smettere di usare il carcere come lo sta usando, con l’idea di “buttare via la chiave” o di considerare chi sta in carcere come persone senza speranza.
Penso che quell’idea di carcere sia pericolosa. Così come è pericolosa l’idea del carcere come luogo di scontro quotidiano tra agenti e detenuti. Ogni volta che si fa un provvedimento a favore dei detenuti, leggere il comunicato di alcune sigle sindacali degli agenti che rivendicano altre cose per loro come se fosse una competizione, è sbagliato. La miglior qualità del lavoro e della vita nel carcere passa dal fatto che migliori per tutti e che il carcere diventi luogo di speranza e non solo di sofferenza.
Non penso che non bisognasse riammodernare le carceri ma penso che non si debba rispondere al problema della sovrappopolazione carceraria aumentando i posti in carcere.
Con il PNRR si finanzia comunque una parte di cose.
È in corso una valorizzazione di alcune carceri come a Napoli, oppure si prevede di costruire un nuovo carcere a Torino (quello attuale è obsoleto).
Personalmente, però, sono uno strenuo difensore del carcere di San Vittore a Milano, in quanto penso che il principio secondo cui le carceri dovrebbero stare fuori dalle città sia pericoloso.
Spesso le carceri devono restare fuori per forza ma ritengo che più le carceri sono quartieri delle città e più si crea una relazione tra interno ed esterno che è positiva per il carcere, da molti punti di vista; ed è positiva per la comunità, che in quel modo sa che il carcere c’è e non lo abbandona.
Ho provato a fare un ragionamento che tenesse insieme le riforme normative che sono in campo, che sono molto concrete, in particolare quella sull’ergastolo ostativo.
Per quanto riguarda il lavoro dei detenuti, con le risorse messe a disposizione dal PNRR, abbiamo provato ad ampliare gli spazi di alcune realtà carcerarie proprio con l’obiettivo di creare maggiori spazi per il lavoro e per la formazione.
Non c’è, infatti, solo il lavoro ma c’è anche la formazione.
Ho conosciuto moltissimi detenuti che, anche se si trovavano in regime di alta sicurezza, si sono laureati e potrebbero spiegare perché la formazione è importante.
Per il lavoro servono spazi e serve riprendere una sorta di moral suasion che faccia capire alle aziende che c’è una convenienza, oltre che una responsabilità sociale, nell’assumere detenuti.
Non c’è solo il lavoro in carcere.
Nelle vicinanze del carcere di Bollate, nell’area che è stata la sede di Expo, oggi sta sorgendo MIND con una serie di realtà economiche e molti detenuti di Bollate vanno a lavorare lì perché ci sono delle convenzioni tra le aziende che operano lì e il carcere.
Chi lavora, però, deve essere pagato.
La questione dei lavori socialmente utili ogni tanto riemerge: a volte, i detenuti, pur di lavorare, vengono portati a pulire i parchi gratis ma questo credo che sia un errore che deve essere risolto perché lo si sta facendo in molti posti.
Il lavoro in carcere e, più in generale, il lavoro deve essere un’opportunità per i detenuti sia dal punto di vista del reddito che della formazione.
Il lavoro non risolve tutto perché lavorare e studiare occupa il tempo ma ci vuole anche qualcosa in più per creare il processo per il reinserimento del detenuto ma è comunque molto.
Purtroppo, la pandemia ha frenato molto le attività.
Sarebbe utile se, ad esempio le aziende che lavorano per i Comuni, ricevessero dai Comuni gli stimoli per selezionare i detenuti a lavorare o per dare lavori a officine e altri laboratori che sono nelle carceri.
In Italia ci sono anche esperienze molto innovative, come ad esempio dei laboratori per rigenerare sistemi di wi-fi a Rebibbia e altrove. Queste esperienze positive vanno diffuse e incentivate perché la strada da seguire è questa.
Stiamo facendo delle riforme. A mio avviso, sono riforme che vanno nella direzione giusta.
Forse queste riforme avrebbero potuto essere fatte meglio ma c’è una maggioranza di Governo molto ampia politicamente. Con una maggioranza connotata in modo diverso, si sarebbero potute fare riforme diverse.
Credo, comunque, che si sia trovato un buon punto di equilibrio. Vedremo come saranno i Decreti attuativi.
Vedremo, anche, dopo i primi anni di applicazione delle riforme se le preoccupazioni che vengono sollevate saranno fondate o meno.
Non condivido il fatto che, ogni volta che si fa qualcosa, si comincia a guardare ciò che non va bene.
Intanto, penso che si sia cominciato ad agire nella giusta direzione; si stanno cominciando a fare delle cose e le verificheremo di volta in volta.
Si tratta di riforme molto concrete.
Rispetto alla questione del domicilio per le persone detenute che possono stare fuori dal carcere, a Milano c’è una parte di alloggi del Comune che è messa a disposizione con questo scopo.
Guarderei a questa fase, quindi, con un po’ di ottimismo.
Ci sono tre punti che sono stati fatti emergere in questa fase: con la riforma del penale si introduce il principio che il carcere è l’estrema ratio e non più l’unica soluzione; si sta lavorando alla questione dell’ergastolo ostativo (come richiesto dalla Corte Costituzionale) per fare in modo che siano concessi benefici anche a chi deve scontare l’ergastolo, se ha mostrato segni di cambiamento e pur garantendo la sicurezza; si sta affrontando il tema del carcere mettendo al centro il lavoro e la formazione per chi deve scontare una pena e non l’aumento indiscriminato della detenzione.
Rispetto a quanto si voleva fare con il primo Decreto Sicurezza e con la Legge sulla Legittima Difesa, mi pare che stiamo facendo passi avanti molto significativi in una direzione diversa.
Siccome c’è una maggioranza di Governo molto composita, per ora, sono contento dei risultati raggiunti con queste riforme.
Con Renoldi a capo del DAP e con Cartabia Ministra della Giustizia può diventare concreta l’idea di usare l’attuale normativa penitenziaria per far funzionare meglio il carcere.
Dobbiamo cominciare a uscire dalla logica per cui la vicenda giudiziaria nel Paese si traduce in una contrapposizione permanente tra magistrati e avvocati, perché così non se ne esce.
Il cuore della questione giudiziaria per il Paese deve essere il far funzionare meglio la Giustizia nell’interesse dei cittadini. Sono convinto che sia tra i magistrati che tra gli avvocati abbiamo tutte le risorse per fare questo ma dobbiamo uscire dalla contrapposizione che ancora è emersa con i referendum e che non fa bene alla Giustizia e non fa bene al Paese.